La sindrome di Cassandra
E’ la preoccupazione del momento di molti genitori: dove iscrivo mio/a figlio/a a scuola? La scelta delle elementari mi ha mandata nel pallone, quella delle medie è stata decisamente più rilassata.
Vi racconterò in un successivo post come, in concerto sia con le sensazioni di mio marito che con quelle di mio figlio, abbiamo scelto quello che – a nostro modesto parere – potrebbe essere un buon istituto dove far studiare Ale.
Intanto vi regalo uno stralcio tratto da Le mamme non mettono mai i tacchi, evidenzia le differenti reazioni di una mamma e di un papà di fronte alla stessa situazione.
Tenete presente che il meccanismo della scrittura ironica mi porta, volente o nolente, a generalizzare. La mia pseudointelligenza riconosce che le parti possono tranquillamente invertirsi: uomo e donna sono ovviamente intercambiabili, però in linea di massima funziona più o meno così:
La sindrome di Cassandra
Le preoccupazioni di una madre prendono vita paradossalmente quando mamma ancora non è. Iniziano quando si affaccia verso il basso, e a incontrare il suo sguardo non ci sono più i piedi, ma il rotondeggiante involucro che contiene il suo prezioso ripieno. Una mamma, in genere, è preoccupata. E se non è preoccupata, allora si preoccupa perché non è preoccupata. Le mamme non assumono atteggiamenti fotocopiati, lungi da me affermare una simile cretineria, però è innegabile che il demone della preoccupazione finisca con il cogliere, in un modo o nell’altro, ciascuna di noi.
I motivi sono disparati, e sarebbe impossibile ed estremamente tedioso elencarli tutti. Non è sostanziale disquisire sull’oggetto delle nostre angosce; ciò che preoccupa una mamma potrebbe essere diametralmente opposto a ciò che preoccupa un’altra.
Il punto è che a volte ci si ritrova a preoccuparsi per il proprio figlio, anziché occuparsene. Un esempio pratico: supponiamo che un giovanottino di sei anni suonati faccia la pipì a letto per ben due giorni consecutivi poco prima che inizi l’anno scolastico. Non gli era mai successo, neanche all’avviamento della sua carriera di spannolinato. Non è chiaramente una tragedia ma l’embolo parte, puntuale. Queste le equilibrate riflessioni della madre sull’accaduto (mi auguro lontano anni luce da orecchie infantili):
«Oh-mio-Dio! Sicuramente avverte la pressione per l’inizio della prima elementare. Sarà spaventato, confuso, dilaniato fra il desiderio di diventare “grande” e quello di rimanere per sempre il cucciolo della mamma. Oppure soffrirà per altri problemi che al momento mi sfuggono; quello di fare la pipì a letto è un sistema per attirare l’attenzione, attenzione che evidentemente non so più fornirgli nel modo adeguato… Si sente solo, abbandonato. Ho sicuramente fatto qualcosa di sbagliato, ma cosa? Cosa ho fatto? Perché mai ha fatto la pipì a letto, santo cielo? Come posso aiutarlo a superare il suo disagio? Come? Eh? Comeee?».
Questa la reazione del papà: «Cara, s’è solo pisciato addosso.».
Il pragmatismo maschile sarà anche duro da mandare giù ma, con buona pace di Freud, dobbiamo ammettere che in determinate occasioni l’invidia del pene ci coglie, eccome. Effettivamente il bambino si è semplicemente fatto la pipì sotto, e magari non si sognerà più di farlo nei secoli a venire.
Ora, tornando all’argomento principale: in quale modo possiamo occuparci dei nostri figli anziché cadere vittime della preoccupazione? La soluzione non è semplice da cogliere, ma è forse contenuta in un piccolo libro di Spencer Johnson. Si chiama Il Presente e regala, a chi sappia coglierlo, uno strumento per rendere concreta la nostra capacità di decidere, riflettere, pianificare, adattarci e – soprattutto – godere e apprezzare il presente, la cosa più bella che la vita ha da offrire.
Per una donna è generalmente difficile vivere nel presente senza preoccuparsi del futuro, soprattutto di quello dei suoi figli. Il futuro ci spaventa a morte, anche se al 90% le preoccupazioni si rivelano come previsioni del tutto errate e fin troppo pessimistiche. Come possiamo defilarci dall’atteggiamento deleterio del “succederà questo, me lo sento?”.
Parlare a oltranza con le amiche, o riversare in un blog le nostre angosce, costituisce una potente valvola di sfogo e soprattutto attua una ricerca di condivisione che scalda il cuore. Ma a volte è lecito chiederci: invece di impiegare il tempo a esternare le perplessità scrivendo dei post o sfinendoci di chiacchiere a vicenda, non faremmo meglio a fermarci ad ascoltare il presente dei nostri bambini?
Basterebbe captare i messaggi nascosti nei loro vari momenti di vita, soltanto loro sono in grado di fornirceli. Dovremmo smettere di predire il futuro, frullare lontano la sfera di cristallo e fermarci ad ascoltare. Sì, quest’ultima frase suona sicuramente sensata, ma la domanda persiste: guarire dalla sindrome di Cassandra è davvero possibile?
Ciao Luana, la mia cucciola ha la stessa età di Superboy e noi abitiamo in un paesino del Veneto dove la scuola elementare è una e la media pure.
Io comunque, da brava mamma preoccupata, mi sono “studiata” tutte le scuole nel raggio di una decina di chilometri e ho preparato un prospettino con le riunioni di presentazione delle diverse scuole.
Ecco, quando l’ho presentato a mio marito per parlarne e valutare a quali incontri partecipare la sua risposta è stata: “Perché dovrebbe cambiare scuola?”
Mi sono afflosciata come un soufflé poco cotto.
Effettivamente sradicarla dal suo ambiente e farle cambiare tutti i compagni, sottoponendoci(mi) a tour chilometrici di accompagna/riprendi/riaccompagna ha senso?
Per poi magari ritrovarsi con un corpo docente con la stessa composizione (eccellenze, buoni, discreti, lasciamo perdere) di quello “di casa” ma a dieci chilometri di distanza?
Ecco io e mio marito siamo giunti alla stessa conclusione: lui i 2 secondi e io in 2 settimane.
Sgrunt!
Rido molto. Non volermene.
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