Oggi a Roma c’è il sole
Mio padre ultimamente non gode di ottima salute e questo “ultimamente” circoscrive uno spazio temporale di almeno dieci anni. Un decennio di tribolazioni non addolcisce certamente il carattere, a tratti non lo riconosco più. Ci sono giorni in cui penso seriamente che Papo, così lo chiamo io, se ne sia andato già da un mucchio di tempo altrove, ritrovarlo non è semplice.
Trovare un punto di incontro sta diventando sempre più complicato, il suo concetto di conversazione consiste in lui che si accalora in discorsi spesso privi di senso (non che sia completamente rintronato, intendiamoci, è solo che è diventato parecchio estremista nei ragionamenti) e tu che devi annuire come una di quelle bamboline hawaiane tanto care ai camionisti. E’ sfiancante: un mezzo passo falso e rischi di litigarci. Nella peggiore delle ipotesi litiga da solo, e quello è ancora più avvilente. Litiga da solo perchè, anche se non lo ammetterà mai, persino lui non si sopporta più.
Ieri l’altro ho dormito a casa dei miei, il mattino successivo ho accompagnato papà a uno dei tanti controlli medici. Dopo cena è successo qualcosa di semplice e potente al tempo stesso: ci siamo ritrovati e amati. Galeotto fu un libro e chi lo scrisse. Il nostro galeotto risponde al nome di Carlo Alberto Salustri aka Trilussa. Papà lo adora da sempre, ma nell’elenco dei doni che gli sta riservando il cielo può vantare anche la perdita progressiva della vista.
Così, mi ha chiesto se gli leggevo qualche poesia… “Ma leggimele bbene, eh capocciò! Nun me le stroppià che è un sacrileggio.”
Non gliel’ho massacrato, il suo amato Trilussa. Siamo andati avanti un’ora buona. Lui mi guardava con gli occhi sorridenti, io contraccambiavo con parole della nostra lingua che non ricordavo neppure esistessero. Sono una “Fine decantatrice di versi. Ammazza, e chi te ce faceva?”.
Il mattino successivo eravamo in ospedale. Dopo che s’è ciucciato la terapia, mentre aspettavamo che il medico lo visitasse ho fatto (a voce sommessa) show fra gli astanti. La prossima volta che l’accompagno porto il piattino. E’ stata una piacevole mattinata, ma non lo dico con sarcasmo. Finché riusciamo entrambi a sorridere e a goderci le poesie, ben venga. Oggi a Roma c’è pure il sole. Portasse bbene, portasse…
Le poesie preferite da mio padre sono quelle a sfondo politico, come “La ninna nanna de la guerra”magistralmente interpretata da Baglioni e recitata da Proietti qui. Questa della sora Checca, però, lo fa ridere di cuore:
LA VOCE DE LA COSCENZA
La sora Checca pare una balena:
ogni passo che fa ripija fiato:
però sotto quer grasso esaggerato
ce sta riposta un’anima che pena.
Era felice, ma la boja sorte
la fece restà vedova du’ vorte.
Cià avuto du’ mariti, sarvognuno!
Due se n’è messi all’anima, purtroppo!
Gustavo prima e Benvenuto doppo
je so’ campati dodicianni l’uno,
e adesso se li porta appennolone
attaccati a lo stesso medajone.
Li tiè rinchiusi in un cerchietto d’oro
da una parte e l’altra, sottovetro:
Gustavo avanti e Benvenuto dietro,
ché così nun se vedeno fra loro
e ognuno se figura e se consola
d’esse rimpianto da una parte sola.
Fa l’impressione che la vedovanza
je venga reggistrata da un controllo,
perché li du’ ritratti che cià ar collo
je vanno a sbatte propio su la panza
e li mariti, còr girasse intorno,
se dànno er cambio cento vorte ar giorno.
Gustavo è pensieroso e guarda storto
quasi che prevedesse l’accidente;
invece Benvenuto è soridente
come fosse contento d’esse morto,
ma ce se vede in tutt’e due la posa
de gente che sospetta quarche cosa.
La sora Checca, infatti, cià er rimorso
che quann’er primo stava ancora ar monno
faceva già la scema còr seconno
in una certa cammeretta ar Corso:
però je le metteva bene assai
perché Gustavo nu’ lo seppe mai.
Poi Benvenuto se la prese lui.
– Io me te spòso subbito – je disse –
purché me giuri de nun famme er bisse
co’ quarcun’antro de l’amichi tui…
– Oh! – fece lei – ce mancherebbe questa!
Per chi me pigli?… – E j’allisciò la testa.
Je fu fedele? Nun garantirei;
prova ne sia ch’adesso s’è avvilita
pe’ la paura che nell’antra vita
li du’ mariti parlino de lei:
e quanno ce s’affissa còr pensiero
je pare de sentilli pe’ davero.
Gustavo dice: – Vojo sapé tutto!
De me che te diceva? – Ch’eri un porco:
quanno partivi tu, partiva l’orco:
diceva ch’eri grasso, ch’eri brutto,
che nun facevi gnente de speciale…
– E invece me chiamava l’ideale!
In dodicianni, dunque, ha sempre finto!
– strilla Gustavo – Nu’ l’avrei creduto!
– Abbi pazzienza: – dice Benvenuto –
è stata propio lei che me cià spinto;
der resto, tu lo sai che nun so’ pochi
quelli che ce facevano li giochi.
Se te dovessi fa’ tutta la lista!
L’avvocatino der seconno piano,
er barone, er curato, er capitano,
perfino Giggi, quel’elettricista
ch’un giorno j’ha rimesso er campanello…
– Puro co’ quello lì? – Pure co’ quello!
‘Sta voce che risente così spesso
nun è che la coscenza che lavora
su li peccati che faceva allora
rimossi da li scrupoli d’adesso:
e le scappate fatte, o belle o brutte,
una per una, le rivede tutte.
Apposta soffre: ché le pene sue
so’ appunto li ricordi de ‘sti fatti:
allora se riguarda li ritratti,
pulisce er vetro, bacia tutt’e due
e, sospiranno, fiotta a denti stretti:
– Ereno tanto boni, poveretti!
(Trilussa)
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