Pallonari
Oggi pomeriggio il parco era semideserto; dei consueti amichetti di Superboy neanche l’ombra. Accalorati in una furiosa partitella a pallone c’erano un deficentello e suo padre, un panzone cinquantenne. E occhio che questa sgradevole definizione non gliel’ho appioppata io, ma il suddetto deficentello, che a poco più di 6 anni continuava, fra un palleggio e l’altro, a definire così l’uomo che ha contribuito a metterlo al mondo, lo sfama e lo cresce. Lo alleva, più che crescerlo, ma vabbe’…
Lo gnomo si avvicina speranzoso, infila i guantoni da portiere, si presenta educatamente, domanda al deficentello come si chiama ricevendo uno sbuffo scocciato e una scrollata di spalle come risposta. Chiede il permesso di poter giocare. Lui e il panzone accettano, con lo stesso entusiasmo di un condannato a morte a cui qualcuno stia strappando di mano l’ultima sigaretta. Piazzano Ale in porta il quale, com’è normale che sia, liscia di tanto in tanto qualche palla.
Il panzone: “Ma quanti anni hai ?/Ma tu non fai la scuola calcio?/Guarda che quello è il mio piede, non la palla/ Ma che c’hai i piedi fucilati…” e altre gradevolezze più o meno sulla stessa linea.
Il deficentello non è da meno: soltanto perché frequenta una pidocchiosissima scuola calcio, inizia a prendere amabilmente per il culo mio figlio. Vigliacco due volte, perché Superboy ha solo un anno meno di lui, ma è alto la metà. Il mio gnappo non si perde d’animo, continua a scodinzolare attorno ai due gentiluomini che proseguono a prenderlo in giro, sindacando anche sul fatto che non saprebbe contare i goal. Lui sa contare, eccome, soltanto che è un baro professionista. Prova a fregarli con le armi che gli sono più congeniali: cervello e chiacchiera, visto che con i piedi non può. Non ne vado orgogliosa, intendiamoci, ma dopo mezz’ora di quel trattamento avrei iniziato a barare anch’io.
“Ma sei proprio una pippa!” sbotta elegantemente a un tratto il deficentello. Vi assicuro che, pur non essendo un campioncino, Ale non è affatto una pippa. Non è un fuoriclasse, ma a pallone ci sa giocare.
Superboy piega gli angoli della splendida boccuccia all’ingiù, mi lancia un rapido sguardo sconsolato, ma non si arrende. Il panzone, neanche a dirlo, non si sogna neanche di riprendere il figlio. Il calcio, si sa, è un gioco per uomini duri. Il calcio è sangue, sudore, stilettate a tradimento sugli stinchi, odio feroce per gli avversari, obbligo di vincere a tutti i costi e soprattutto parolacce. Anche sport? Naaaaaaaaa. La sportività non è contemplata nel pacchetto.
All’ennesimo “Ma tu non fai scuola calcio?” avrei voluto sbottare “No, non fa scuola calcio. Però a cinque anni e mezzo legge come un bimbo di otto, conta in inglese fino a cento e in italiano fino a cifre che tu – che sei nato un anno prima di lui – non riesci neanche lontanamente a quantificare, usa congiuntivo, condizionale e gerundio dall’età di due anni, bara a scarabeo, gioca a scopa meglio di un biscarolo, risolve le parole crociate, monta i mobili dell’Ikea con la sola forza del pensiero, ha iniziato a smanettare sul pc un attimo dopo aver tolto il pannolino, nuota con la grazia di una razza e la potenza di uno squalo, è un bambino bello, intelligente, sano e viva Dio la sua esistenza non ruota attorno a un fottuto pallone.”
Mi sono astenuta, perché sono una persona educata io. Fortunatamente poi lo gnomo si è stancato e ha preso a giocare con individui un filino più accomodanti. Sempre con il sorriso sulle labbra.
I due trogloditi hanno continuato a giocare e a insultarsi a vicenda, fin quando il deficentello non ha afferrato un game boy e non ha più schiodato il culo dalla panchina. Si è scosso dal suo intrattenimento culturale soltanto a un passo dalle convulsioni.
La vicenda, comprenderete, mi ha fatto girare non poco le palle. Passi per il deficentello, ma le uscite del panzone cinquantenne erano difficili da digerire.
Mio figlio magari non avrà la stoffa del calciatore, ma può sfoggiare la ricchezza di un cervello funzionante. Ciò non gli garantirà un esistenza felice, anzi, molto probabilmente gliela complicherà oltre misura. Al di là di questa rosea previsione, sono certa che il rispetto per il prossimo che cerco di inculcargli lo porterà, un domani, ad appioppare un sonoro scapaccione al figlio qualora si permettesse, un giorno, di dare della pippa a un altro bambino, per giunta più piccolo di lui.
E se non lo farà, vorrai dire che lo scapaccione glielo mollerò io. Di taglio, fra capo e collo. Prima a lui, poi a mio nipote. Doppietta, tanto per rendere omaggio alla terminologia calcistica.
Sarà sicuramente una considerazione retorica, la mia, ma alla radice dello schifo che si vede negli stadi c’è sicuramente una penuria di scapaccioni mai appioppati da orde di cinquantenni panzoni che insegnano tutto del calcio ai propri figli, tranne il trascurabile particolare che dovrebbe essere uno sport.
Desclaimer per evitare che qualcuno mi denunci ai servizi sociali: preciso ai sostenitori della non violenza – fra i quali milito in prima fila io – che lo scapaccione è un bonario ma deciso monito da usare in casi di estrema e reale necessità. Dosando con criterio la forza, difficilmente è il grado di decapitare il destinatario ed è decisamente più efficace di mille discorsi. Quelli devono precederlo o seguirlo, fino alla nausea, questo lo do per scontato. Nel dubbio, comunque lo preciso. Non si sa mai.