Pure io c’avevo la Tolfa alle medie
Questa è l’origine della Tolfa, un must have per gli studenti romani negli anni Ottanta. L’embolo Amarcord ci è partito ieri sera, quando la mia amica Silvia ha così annunciato su Facebook: Sono a Tolfa. Romani over 40, ditemi: come resisto all’acquisto di una Tolfa originale? (Sono ancora identiche).
Sono stati parecchi i figli della Lupa a testimoniare quanto, attorno al 1980, fossimo dei discreti dementi schiavi della (scomoda) moda del momento. La Tolfa, per noi studentelli romani delle medie, era la nostra cartella.
Quando la compravi era chiarissima e di marmo. Dovevi farla diventare color testa di moro morbida come un guanto. Capienza zero, ma la usavamo per scuola. Folli ( Silvia)
E tutto il resto ce lo portavamo a mano, con la cinghia per i libri. C’entrava a malapena l’astuccio, la bustina rettangolare con la zip. Se niente niente avevi quella a cilindro, eri fottuto.
Quattro quaderni ( piccoli ) all’interno, il diario, al massimo la merenda. Il sussidiario e qualsiasi altro libro prossimo alle dimensioni A4 te li dovevi trascinare a braccia, con la cinghia. Bastava lo spintone di un compagno di classe e, se per caso era piovuto, tutto il tuo sapere finiva affogato in una pozzanghera. Ma potevamo essere più deficienti di così?
C’era anche la versione scamosciata; al primo giorno di pioggia puzzava di cane bagnato, morto. E pure da parecchio tempo. Il modello più figo era quello di cuoio, la scamosciata era più economica. Bellissima, la Tolfa. Sostanzialmente inutile come cartella, ma era ed è tuttora splendida.
Andava portata rigorosamente di traverso sulla spalla, la strada più sicura per assicurarsi l’asimmetria perenne della schiena; chi la indossava in modalità ‘ signoramia’ era un coglione. E le firme dei compagni di classe, quelle si facevano a penna, all’interno. Era una fatica bestia scrivere sulla patta della borsa, bisognava premere forte per incidere dediche di inusitata poesia quali “Come la barca lascia la scia io ti lascio la firma mia” o più truci, quelle che dopo averle scritte la Tolfa qualcuno te la tirava dritta dritta fra capo e collo “Io amo te, tu ami me, un bacio tira l’altro e presto saremo in tre”.
Nove volte su dieci l’inchiostro sbavava un po’. E allora usavamo il tratto pen.
Non c’entrava nulla, o quasi, nella Tolfa. I miei concittadini quarantenni sono ancora scossi dal trauma della “riga de tecnica, quella da 60 cm, quella che nun sapevi mai ‘ndo cacchio ficcalla.” L’ unico sistema era infilarla di traverso, ce n’era sempre un pezzo che sbucava fuori; partivano involontari combattimenti spadaccini fra una Tolfa e l’altra, soprattutto all’uscita da scuola quando avevi una fretta di tornartene a casa, che lèvate. Non a caso, il modello che indossavamo noi era la catana. Se anche allora avessimo lanciato K a casaccio come oggi, la fiacca battuta sarebbe forse più lampante.
Poi questa fissa ci passò, attorno al 1984 cicciò fuori un nuovo irrinunciabile feticcio: lo zainetto dell’Invicta. Ma quello, magari, ve lo racconto un’altra volta assieme alla storia delle Clarks che facevano venire i polpacci grossi. Puzzavano di cane bagnato anche loro ma mica sono tanto sicura che fosse colpa della pioggia.
Zaino Invicta
Moncler
Jeans fino a metà polpaccio
I bus Atac con la postazione del bigliettaio in fondo
Piaggio Sì
Parliamone, parliamone!!!
E il “Ciaetto”, quello che partiva a spinta? 😀
Il Dolomite doubleface, ghiaccio e rosso.
La cintura de El Charro, pacchianissima.
La guerra fra i fan dei Duran Duran e quelli degli Spandau Ballet.
Sto partendo, Livia. Prendo nota e tiro fuori qualcosa al ritorno.
Il bomber
Lo Schott
Il Barbour, che puzzava di pesce rancido (ma qui siamo già più avanti)
I mollettoni coi fiori finti
La Coppa dei Campioni che costava non ricordo se 200 o 400 lire
Buon viaggio, ti aspetto!!!
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